Come ben
sappiamo esistono buchi neri di taglia stellare, quelli che si formano
dal collasso gravitazionale di stelle molto massicce, e buchi neri di
taglia gigantesca posti al centro di numerosissime galassie, che si
formano… già, come si formano questi ultimi? In un lavoro presentato nel
gennaio 2002 al meeting dell’American Astronomical Society di Washington
DC dagli astrofisici Steve McMillan, della Drexel University di
Philadelphia, e da Simon Portegies Zwart, della University of Amsterdam,
vengono portate per la prima volta evidenze dell’esistenza di buchi neri
di taglia intermedia, che si formano all’interno di giovani ammassi
stellari, abbondanti nelle popolose e turbolente regioni centrali della
grandi galassie. In tali ammassi, le stelle più massicce si portano
“rapidamente” verso il centro del sistema, dove incontrano loro simili
con le quali si fondono originando delle superstelle di centinaia o
migliaia di masse solari. Entro circa 20 milioni di anni le superstelle
esplodono originando buchi neri di taglia intermedia, che per motivi
dinamici e mareali dell’ammasso a cui appartengono finiscono con
l’avvicinasi abbastanza al centro galattico da far convergere in una
sola regione i vari buchi neri di taglia intermedia. E’ l’inizio, se già
non esisteva prima, della formazione di un gigantesco buco nero
centrale, che andrà crescendo via via che nuovi ammassi contenenti buchi
neri intermedi cederanno il loro carico a quello centrale.
Fin qui la teoria supportata da elaborazioni al computer. Ma la pratica?
Più volte si sono rintracciati potenziali canditati alla classe
intermedia dei buchi neri, senza però avere una certezza
incontrovertibile della loro esistenza. Finora almeno, perché sul numero
odierno (2 luglio) di Nature trova posto uno studio effettuato da
un team internazionale guidato da
Sean
Farrell, del Centre d’Etude Spatiale des Rayonnements,
e basato su dati
ottenuti tramite l’osservatorio orbitante dell’ESA XMM-Newton, che
annuncia la scoperta di un buco nero di circa 500 masse solari in una
regione periferica della galassia ESO 243-49, distante 290 milioni di
anni luce. Il buco nero, denominato HLX-1, si è rivelato sotto forma di
sorgente X iperluminosa (260 milioni di volte più del Sole) e quindi in
piena “attività alimentare”. Escluso che possa trattarsi di un oggetto
esotico della nostra galassia o che sia esso stesso una galassia di
fondo, non rimane che l’ipotesi buco nero di taglia intermedia realmente
appartenente a ESO 243-49, e posizione e luminosità ci dicono che non
può trattarsi né di un gigantesco buco nero centrale (è in periferia),
né di un buco nero di taglia stellare (troppo luminoso). Ci sarebbe però
ancora un’alternativa: HLX-1 potrebbe essere un enorme ammasso stellare
e l’elevata luminosità risulterebbe dalla somma delle sue componenti.
Per eliminare anche quest’ultima eventualità, Farrell e colleghi hanno
riosservato l’oggetto, coprendo così un periodo di quattro anni (dal
novembre 2004 al novembre 2008), dimostrando che la componente X della
luce di HLX-1 è variata significativamente, fatto impossibile da
attribuire ad un ammasso, ma ragionevole per un singolo oggetto. In
conclusione, l’unica spiegazione fisica per HLX-1 è che si tratti di un
buco nero di taglia intermedia, una scoperta rilevante che può
confermare le teorie di McMillan e Portegies Zwart sull’origine dei
buchi neri supermassicci e di conseguenza sull’evoluzione delle
galassie.
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