Secondo il modello cosmologico
standard, i buchi neri supermassicci presenti al centro della gran
parte delle galassie crescono proporzionalmente alle galassie
stesse. Di conseguenza, quando nel giovane universo, entro 1
miliardo di anni dal Big Bang, le galassie erano prevalentemente
piccole, anche i buchi neri presenti nei loro nuclei dovevano essere
molto più piccoli di quelli osservabili nell'universo temporalmente
a noi più prossimo.
Invece non è così: i buchi neri supermassicci del giovanissimo universo, individuati attraverso la loro natura di quasar,
risultano essere per lo più massicci tanto quanto i loro simili
contemporanei, e ciò significa che devono essere cresciuti molto più
rapidamente delle galassie che li ospitano.
Per capire quale processo è alla base della loro alimentazione,
Tiziana Di Matteo, Rupert Croft e Nishikanta Khandai, della Carnegie Mellon University,
hanno messo in piedi la più ampia simulazione di cosmologia al
computer mai vista finora, sia per quanto riguarda il volume
considerato sia per quanto riguarda il tempo. In pratica è la
ricreazione dell'universo quando aveva un'età inferiore a 1 miliardo di anni, sulla
base del modello standard.
L'obiettivo era quello di trovare riscontri a risultati osservativi
della Sloan Digital Sky Survey (SDSS) che indicano la presenza di
giganteschi buchi neri già 700 milioni di anni dopo il Big Bang,
realtà confermata dal team della Carnegie Mellon, che grazie
all'altissima risoluzione della sua simulazione è riuscito ad andare
anche molto al di là dei limiti dei telescopi terrestri, scoprendo
che cosa alimenta quei lontani buchi neri supermassicci: flussi
continui di gas freddi, che si muovono lungo la struttura
filamentare dell'universo (illustrata qui sopra), ed entrano quindi
direttamente nei buchi neri evitando interazioni rilevanti con le
galassie ospiti. Ciò permette ai gas di non essere riscaldati e
dispersi, circostanza che agevola la loro caduta verso i buchi neri
e quindi la loro rapida crescita. |